martedì 2 agosto 2011

Elephant, 1989

Noi, spettatori dei problemi
Commento su Elephant di Alan Clarke (1989)

In questo film non si parla, si spara. Una bella frase a effetto, perfetta per commentare in poche parole un film d’azione, un poliziesco o un gangster movie, in cui uomini duri a morire si sfidano con le armi da fuoco a causa delle più svariate ragioni. Ovviamente un commento del genere deve garantire che il film sia ricco di scene di omicidi e sparatorie. Immaginate di prendere un film del genere, spogliarlo completamente del suo intreccio e lasciare solamente le scene in cui un uomo ne uccide un altro con una pistola, o con un fucile.



Il risultato che otterrete da quest’esperimento sarà molto simile al mediometraggio del regista britannico Alan Clarke, Elephant, concesso dalla BBC irlandese nel 1989 (Gus Van Sant, ammiratore di Clarke, riprenderà lo stesso titolo per il suo film del 2003, che si rifà alla strage del liceo americano Columbine, Michigan). Durante i quaranta minuti di durata della pellicola, la scena che ci si presenta davanti agli occhi è sempre la stessa, un omicidio, ma ogni volta in una veste diversa. L’assassino si dirige nel luogo in cui si trova la vittima, gli spara, e si allontana indisturbato. La formula è sempre questa, nella quasi totale assenza di dialogo. Gli unici rumori presenti per tutta la durata del mediometraggio sono quelli prodotti dall’ambiente circostante e dai passi dell’assassino o della vittima, in luoghi completamente deserti. Gli scenari sono i più svariati, luoghi comuni ad ogni cittadina: pompe di benzina, parcheggi, campi sportivi, abitazioni, usci di casa, viali nei parchi ecc. Pochissime le comparse: negli attimi che precedono l’omicidio, i protagonisti della scena sono sempre e solo assassino/i e vittima/e. Gli assassini si muovono come dei veri e propri sicari, vestiti in borghese, persone comuni, come comuni sono le vittime, si avviano decisi e compiono il loro dovere nella più assoluta freddezza. Non si sanno le motivazioni degli omicidi, né la storia dei molti personaggi. Pochi anche gli espedienti stilistici. Il regista gioca semplicemente con la macchina da presa, la Steadycam, che permette di seguire gli attori come se si fosse alle loro spalle o accanto a loro. Le inquadrature giocano un ruolo fondamentale per il ripetersi della formula. La telecamera insegue l’assassino finché esso non uccide, resta immobile sulla vittima esanime per una decina di interminabili secondi, e poi continua a seguire l’assassino che se ne va.
Questo mediometraggio è una provocazione, un paradosso per chi non ne conosce le motivazioni, ovvero, è una serie di omicidi per cui lo spettatore non prova nessuna emozione. Non prova compassione per le vittime: non sa chi sono; e allo stesso modo non prova rabbia per gli assassini, perché non sa chi sono né perché fanno quel che fanno. Questa reazione è stata possibile grazie a ciò che il regista ha tolto: la trama, i dialoghi, il pathos. Tutto ciò ha creato delle situazioni irreali in uno scenario tipicamente realistico: l'ambiente urbano.
Il film però, non può essere inteso appieno se non lo si inserisce nel contesto che vuole rappresentare (e denunciare). Si può parlare di un “film-messaggio” o di “mockumentary” (finto documentario), che si riferisce al cosiddetto Conflitto Nordirlandese (The Trouble), ovvero una seri di omicidi che si svolsero in Irlanda e poi anche in Gran Bretagna fra gli anni ’60 e gli anni ’90, che produsse più di 3000 vittime, per ragioni che hanno alla base discriminazioni religiose. Ma anche conoscendo ciò che il film vuole documentare, le interpretazioni che si possono cogliere sono fra le più svariate, esattamente come si può dedurre un’assenza di interpretazione. Come intendere allora il film? Un semplice messaggio? Non è semplice rispondere a questi interrogativi, ma alla luce dei fatti le reazioni sono le più diverse. Chi ha vissuto da vicino quelle vicende, in Irlanda, avrà una reazione diversa da chi non le ha vissute per niente, ma le conosce grazie alla cronaca.
La mia interpretazione è la seguente, forse troppo generalizzata, ma è la prima che mi è venuta in mente mentre guardavo il film. Quando le cose vanno male, ma non ci toccano personalmente, ci indigniamo. Però non abbiamo tempo, né coraggio, né costanza per fare qualcosa perché queste cose cambino, e ci aspettiamo che qualcun altro le risolva per noi, il minimo che possiamo fare è aspettare, senza compromettere il nostro ruolo di spettatori. Appena diamo nuovamente uno sguardo per vedere se le cose sono cambiate, ci accorgiamo che vanno ancora male, ma aspettiamo ancora, nella speranza che si risolvano da sole. Questa è la stessa cosa che accade ad uno spettatore che guarda questo film. Dopo le prime scene di omicidi si aspetta che la storia si evolva, che il film prenda un’altra piega. Quindi rimane a guardare fino alla scena successiva, che si presenta sempre uguale. Allora aspetta fino alla fine, sperando che non ci siano più omicidi e che qualcuno cominci a parlare. Ma questo non accade, perché il messaggio è (a mio parere) il seguente: più cerchi di ignorare un problema, e rimani a guardarlo inerme, senza cercare di risolverlo, più questo ti si presenterà davanti, sempre.
In qualche modo quest’interpretazione riprende la motivazione che ha spinto il regista alla scelta del titolo, Elefante (Elephant). Titolo emblematico, ma che esprime chiaramente il concetto, perché si rifà al detto sarcastico: un problema facile da ignorare quanto un elefante in un soggiorno. Se non lo smuovi, l’elefante rimarrà sempre lì, e se l’elefante rappresenta metaforicamente un problema, allora siamo messi male. Rifacendosi a questo detto, il film ci appare più chiaramente come una protesta, un messaggio a chi ignora il problema delle violenze in Irlanda. Volete un film sugli omicidi in Irlanda? E io vi do quaranta minuti di omicidi in Irlanda (potrebbe essere una delle ragioni del regista). Niente di più semplice, pensiamo a posteriori. Ma l’arte non va mai (sotto)valutata a posteriori, e per quanto un’opera ci possa sembrare scontata o noiosa, non bisogna mai privarsi della sua chiave di lettura. E se quest’opera vuole essere un messaggio di protesta - senza fronzoli o implicazioni formali di nessun tipo - credo che valga la pena apprezzarla fino alla fine come prodotto artistico. E laddove l’arte finisce, val la pena di iniziare a riflettere.


Elephant: http://www.youtube.com/watch?v=KyRL73HIvqg

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