venerdì 8 marzo 2013

Bianciardi e il lavoro culturale


Se volessi far luce sul panorama editoriale italiano e sul tasso di lettura degli italiani, basterebbe rimanere comodamente a casa, e immaginare un'intervista a Luciano Bianciardi.


Se gli chiedessi un'opinione generale sul mercato librario e sull'approccio degli italiani alla lettura, lui esordirebbe così: “Nell'antichità era il lettore che cercava il libro, mentre oggi il rapporto si è invertito: il libro cerca il lettore”. E se gli chiedessi, nello specifico, se è vero che in Italia persiste la cosiddetta “crisi del libro”, lui risponderebbe: “In Italia la crisi è complicata dal fatto che moltissimi scrivono e pochissimi leggono”. Quindi andrei avanti chiedendogli se c'è un vero squilibrio fra lettori e scrittori, e come si potrebbe risolvere l'analfabetismo, ed ecco che si scatena: “Ogni anno in Italia diecimila persone danno alle stampe le loro opere, e se si tiene presente che un solo libro viene stampato, su cento che arrivano manoscritti sul tavolo di un editore, ne risulterà che abbiamo in Italia, un numero altissimo di scrittori, fra editi e inediti: circa un milione, o anche di più. Forse il numero degli scrittori è pari a quello degli analfabeti, e fors'anche il problema dell'analfabetismo si potrebbe risolvere imponendo a ciascun autore di insegnare a leggere a un analfabeta, servendosi del suo libro inedito come di un sillabario”.
Luciano Bianciardi - Il lavoro culturale
(Feltrinelli, 2009)
Le risposte della mia intervista fittizia a Bianciardi (è morto nel 1971), sono state estrapolate da un suo libriccino, Il lavoro culturale, scritto nel 1957. L'unica cose che è cambiata, nelle sue affermazioni, sono i numeri. E l'attualità del romanzo non sta solo nei temi trattati, ma anche nella forma. Questa la possiamo individuare “tra il pamphlet e il saggio di costume”, come scritto in quarta di copertina, e anche se privo di un reale intreccio, è inevitabile cogliere l'andamento narrativo, scandito dall'ordine cronologico con cui vengono raccontati i fatti. Assistiamo alla crescita dello scrittore (sotto pseudonimo di Luciano Bianchi) nel suo paese toscano, che non viene mai nominato (viene chiamato Kansas City, nome dato da un professore americano perché gli ricordava il suo paese d'origine). Qua inizia la sua formazione intellettuale, che si manifesterà nell'immediato dopoguerra. Insieme al fratello più piccolo, diventato professore di filosofia, si trovarono a ricoprire un ruolo molto dibattuto in quegli anni, al centro dei rapporti fra politica e cultura e fra intellettuale e partito. Loro erano cresciuti all'insegna dell'antifascismo, in un paese storicamente repubblicano (sotto la mitologia mazziniana), anticlericale e che guardava con sospetto i comunisti. Entrambi vengono notati dagli assessori al lavoro culturale, che si susseguono nel tempo, e si trovano al centro delle maggiori iniziative. Propongono la fondazione di un cineclub, negli anni del trionfo del cinema sovietico e del neorealismo italiano. Viene poi posto il problema dell'analfabetismo, della domanda del libro, e si trova un'iniziale soluzione nelle attività collaterali delle biblioteche. Altro tema attuale è il problema del precariato degli insegnanti di scuole medie e superiori. Vengono inoltre proposti circoli di cultura per la celebrazione di anniversari illustri, e la fondazione di una rivista. Tutte esperienze vissute da Bianciardi direttamente, e trasmesse nel romanzo come un dovere civile. C'è anche un tentativo di teorizzare l'esposizione di un problema culturale, e di codificare un apposito linguaggio verbale e gestuale.
Scritto in una prosa agile e con una lingua semplice, quasi non si sente differenza quando passa dai dialoghi quotidiani alle digressioni più tecniche. In questa descrizione appassionata del proprio percorso, il fine perseguito è ciò che la cultura può concretamente cambiare. Se all'inizio prevale l'esaltazione dell'incontaminata vita di provincia come toccasana culturale (“La provincia, culturalmente, era la novità, l'avventura da tentare”), alla fine troviamo la nostalgia per un fervore intellettuale oramai rarefatto (“Abbastanza male vanno le cose nella campagna riformata”). Il libro si chiude infatti con una nota dell'autore, scritta a posteriori nel '64, in cui dopo essere ritornato al suo paese, scrive cosa sia cambiato in peggio, cosa in meglio, cos'è rimasto, chi è rimasto.
A noi è rimasto il suo libro, una lezione ancora valida.

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