Commento su Elephant di Alan Clarke (1989)
Il
risultato che otterrete da quest’esperimento sarà molto simile al
mediometraggio del regista britannico Alan Clarke, Elephant,
concesso dalla BBC irlandese nel 1989 (Gus Van Sant, ammiratore
di Clarke, riprenderà lo stesso titolo per il suo film del
2003, che si rifà alla strage del liceo americano Columbine,
Michigan). Durante i quaranta minuti di durata della pellicola, la
scena che ci si presenta davanti agli occhi è sempre la stessa, un
omicidio, ma ogni volta in una veste diversa. L’assassino si dirige
nel luogo in cui si trova la vittima, gli spara, e si allontana
indisturbato. La formula è sempre questa, nella quasi totale assenza
di dialogo. Gli unici rumori presenti per tutta la durata del
mediometraggio sono quelli prodotti dall’ambiente circostante e dai
passi dell’assassino o della vittima, in luoghi completamente
deserti. Gli scenari sono i più svariati, luoghi comuni ad ogni
cittadina: pompe di benzina, parcheggi, campi sportivi, abitazioni,
usci di casa, viali nei parchi ecc. Pochissime le comparse: negli
attimi che precedono l’omicidio, i protagonisti della scena sono
sempre e solo assassino/i e vittima/e. Gli assassini si muovono come
dei veri e propri sicari, vestiti in borghese, persone comuni, come
comuni sono le vittime, si avviano decisi e compiono il loro dovere
nella più assoluta freddezza. Non si sanno le motivazioni degli
omicidi, né la storia dei molti personaggi. Pochi anche gli
espedienti stilistici. Il regista gioca semplicemente con la macchina
da presa, la Steadycam, che permette di seguire gli
attori come se si fosse alle loro spalle o accanto a loro. Le
inquadrature giocano un ruolo fondamentale per il ripetersi della
formula. La telecamera insegue l’assassino finché esso non uccide,
resta immobile sulla vittima esanime per una decina di interminabili
secondi, e poi continua a seguire l’assassino che se ne va.
Questo
mediometraggio è una provocazione, un paradosso per chi non ne
conosce le motivazioni, ovvero, è una serie di omicidi per cui lo
spettatore non prova nessuna emozione. Non prova compassione per le
vittime: non sa chi sono; e allo stesso modo non prova rabbia per gli
assassini, perché non sa chi sono né perché fanno quel che fanno.
Questa reazione è stata possibile grazie a ciò che il regista ha
tolto: la trama, i dialoghi, il pathos. Tutto ciò ha creato delle
situazioni irreali in uno scenario tipicamente realistico: l'ambiente
urbano.
Il
film però, non può essere inteso appieno se non lo si inserisce nel
contesto che vuole rappresentare (e denunciare). Si può parlare di
un “film-messaggio” o di “mockumentary”
(finto documentario), che si riferisce al cosiddetto Conflitto
Nordirlandese (The
Trouble),
ovvero una seri di omicidi che si svolsero in Irlanda e poi anche in
Gran Bretagna fra gli anni ’60 e gli anni ’90, che produsse più
di 3000 vittime, per ragioni che hanno alla base discriminazioni
religiose. Ma anche conoscendo ciò che il film vuole documentare, le
interpretazioni che si possono cogliere sono fra le più svariate,
esattamente come si può dedurre un’assenza di interpretazione.
Come intendere allora il film? Un semplice messaggio? Non è semplice
rispondere a questi interrogativi, ma alla luce dei fatti le reazioni
sono le più diverse. Chi ha vissuto da vicino quelle vicende, in
Irlanda, avrà una reazione diversa da chi non le ha vissute per
niente, ma le conosce grazie alla cronaca.
La
mia interpretazione è la seguente, forse troppo generalizzata, ma è
la prima che mi è venuta in mente mentre guardavo il film. Quando le
cose vanno male, ma non ci toccano personalmente, ci indigniamo. Però
non abbiamo tempo, né coraggio, né costanza per fare qualcosa
perché queste cose cambino, e ci aspettiamo che qualcun altro le
risolva per noi, il minimo che possiamo fare è aspettare, senza
compromettere il nostro ruolo di spettatori. Appena diamo nuovamente
uno sguardo per vedere se le cose sono cambiate, ci accorgiamo che
vanno ancora male, ma aspettiamo ancora, nella speranza che si
risolvano da sole. Questa è la stessa cosa che accade ad uno
spettatore che guarda questo film. Dopo le prime scene di omicidi si
aspetta che la storia si evolva, che il film prenda un’altra piega.
Quindi rimane a guardare fino alla scena successiva, che si presenta
sempre uguale. Allora aspetta fino alla fine, sperando che non ci
siano più omicidi e che qualcuno cominci a parlare. Ma questo non
accade, perché il messaggio è (a mio parere) il seguente: più
cerchi di ignorare un problema, e rimani a guardarlo inerme, senza
cercare di risolverlo, più questo ti si presenterà davanti, sempre.
In
qualche modo quest’interpretazione riprende la motivazione che ha
spinto il regista alla scelta del titolo, Elefante (Elephant).
Titolo emblematico, ma che esprime chiaramente il concetto, perché
si rifà al detto sarcastico: un problema facile da ignorare
quanto un elefante in un soggiorno. Se non lo smuovi, l’elefante
rimarrà sempre lì, e se l’elefante rappresenta metaforicamente un
problema, allora siamo messi male. Rifacendosi a questo detto, il
film ci appare più chiaramente come una protesta, un messaggio a chi
ignora il problema delle violenze in Irlanda. Volete un film sugli
omicidi in Irlanda? E io vi do quaranta minuti di omicidi in Irlanda
(potrebbe essere una delle ragioni del regista). Niente di più
semplice, pensiamo a posteriori. Ma l’arte non va mai
(sotto)valutata a posteriori, e per quanto un’opera ci possa
sembrare scontata o noiosa, non bisogna mai privarsi della sua chiave
di lettura. E se quest’opera vuole essere un messaggio di protesta
- senza fronzoli o implicazioni formali di nessun tipo - credo che
valga la pena apprezzarla fino alla fine come prodotto artistico. E
laddove l’arte finisce, val la pena di iniziare a riflettere.
Elephant: http://www.youtube.com/watch?v=KyRL73HIvqg
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