venerdì 3 gennaio 2014

Non resta che ridere del proprio dolore. Sherwood Anderson, Riso nero

Si potrebbe riassumere Riso nero di Sherwood Anderson come la manifestazione dell'insofferenza verso i vincoli dettati dalle convenzioni sociali. Il sottotitolo all'edizione italiana del '76 (traduzione di Cesare Pavese) recita: La fuga come sistema di sopravvivenza in America. E questo è abbastanza vero, se si considera la parola “fuga” in un senso molto ampio. Fuga da una società opprimente, fuga dalla quotidianità fatta di un lavoro convenzionale, di frequentazioni convenzionali, di un amore convenzionale.

La prosa di Anderson è asciutta e lirica, il modo di narrare è ingenuo e onesto. Procede per associazione di pensieri più che per ordine cronologico degli avvenimenti, ogni scena descritta contiene delle micro-storie, e alcuni dettagli rievocano lunghi ricordi e riflessioni. Anderson è un “padre letterario” americano, nel senso che il suo modo di raccontare verrà imitato da molti scrittori successivi. Il primo che mi viene in mente appartiene alla generazione immediatamente a venire, John Fante. Leggendo Riso Nero è impossibile non pensare a Chiedi alla polvere o a La confraternita dell'uva. Inoltre, Fante nomina diversi autori nei propri romanzi, tra cui Anderson. Ma lo stesso citazionismo di Fante è preso da Anderson, che in Riso nero, fra gli altri, parla di James Joyce e Mark Twain.
Sherwood Anderson con la terza moglie,
Elizabeth Prall (metà anni '20)
Oltre che per lo stile, Anderson è stato maestro nell'indagare lo spirito dell'uomo americano: irrequieto, nomade, nevrotico. La consapevolezza dello spirito americano emerge ancora di più dal confronto con l'Europa (Parigi era la meta di artisti e scrittori americani, e in cui soggiornò anche Anderson), di cui alcuni personaggi del romanzo si fanno portavoce. Anderson indaga il vizio americano di voler sempre ripartire da zero, quando qualcosa va male, spostandosi in un altra città: “[...] Ce n'è tanti. E' la passione americana per la strada, credo”.

I protagonisti del romanzo sono due: Bruce Dudley (fu John Stockton) e Aline Grey. Entrambi manifestano un'inquietudine costante: sono senza certezze, vogliono fuggire da ciò che li opprime, e le loro vicende si intrecciano fino a rendere comune questa irrequietezza.
Bruce Dudley è sposato con Bernice, vive a Chicago, ed entrambi scrivono per riviste culturali. Bernice sembra integrata perfettamente con l'elitè intellettuale e artistica della città, ma lo stesso non vale per Bruce. La sua insoddisfazione e l'artificiosità dell'ambiente frequentato dalla moglie lo portano a provare compassione per lei, poi a deriderla, e infine a scappare da lei. Così Bruce scappa a Old Harbor, Indiana, dove vuole farsi una nuova vita. Old Harbor è il posto in cui Bruce è cresciuto e, per evitare di essere riconosciuto, decide di cambiare il suo nome, mischiando i nomi di due insegne che aveva visto lungo il tragitto.
L'incontro tra i due protagonisti avviene un giorno in cui Aline aspetta in macchina il marito, Fred Grey, di fronte alla fabbrica che egli dirige, e nel mentre osserva uscire gli operai: fra loro nota Bruce Dudley, che si era trovato un posto come pittore di ruote.
Una delle prime edizioni americane
del romanzo
Aline è una giovane americana che ha passato la sua giovinezza a Parigi, dove ha conosciuto Fred Grey, anch'egli giovane americano, reduce della Grande guerra. I due si sposano, ma forse per Aline era troppo presto. Tornano in America, dove Fred vuole farsi un nome nel mondo degli affari, divenendo capo della fabbrica di ruote di Old Harbor, Indiana. Nonostante il marito porti avanti la fabbrica con dignità, e abbia un certo spessore in società, Aline non trova l'armonia che desidera. Vorrebbe sentirsi libera di soddisfare le proprie esigenze, ma è una donna sposata.

In questo romanzo ogni personaggio manifesta le debolezze più intime, sprizza saggezza incosciente, palesa il suo dolore e cerca il modo per non soffrire. Per alcuni questa ricerca può richiedere una vita. Questa è la missione di Bruce e Aline. E il “riso nero” non è altro che il modo di ridere delle sofferenze, proprie e altrui. Nel romanzo il “riso nero”, oltre ad essere quello dei protagonisti, ha una rappresentazione fisica: quello delle due serve afroamericane dei Grey. Nonostante la loro condizione di schiave, la loro saggezza supera di gran lunga quella dei protagonisti.
                                                     
Talvolta non resta che ridere, anche se non ci riusciamo.

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