Se volessi far luce
sul panorama editoriale italiano e sul tasso di lettura degli
italiani, basterebbe rimanere comodamente a casa, e immaginare
un'intervista a Luciano Bianciardi.
Se gli chiedessi un'opinione generale sul mercato librario e sull'approccio degli italiani alla lettura, lui esordirebbe così: “Nell'antichità era il lettore che cercava il libro, mentre oggi il rapporto si è invertito: il libro cerca il lettore”. E se gli chiedessi, nello specifico, se è vero che in Italia persiste la cosiddetta “crisi del libro”, lui risponderebbe: “In Italia la crisi è complicata dal fatto che moltissimi scrivono e pochissimi leggono”. Quindi andrei avanti chiedendogli se c'è un vero squilibrio fra lettori e scrittori, e come si potrebbe risolvere l'analfabetismo, ed ecco che si scatena: “Ogni anno in Italia diecimila persone danno alle stampe le loro opere, e se si tiene presente che un solo libro viene stampato, su cento che arrivano manoscritti sul tavolo di un editore, ne risulterà che abbiamo in Italia, un numero altissimo di scrittori, fra editi e inediti: circa un milione, o anche di più. Forse il numero degli scrittori è pari a quello degli analfabeti, e fors'anche il problema dell'analfabetismo si potrebbe risolvere imponendo a ciascun autore di insegnare a leggere a un analfabeta, servendosi del suo libro inedito come di un sillabario”.
Le
risposte della mia intervista fittizia a
Bianciardi (è
morto nel 1971), sono state estrapolate da un
suo
libriccino, Il lavoro culturale, scritto nel
1957. L'unica cose che è
cambiata, nelle
sue affermazioni, sono i numeri.
E
l'attualità
del romanzo non
sta solo nei temi trattati, ma anche nella forma. Questa
la possiamo individuare “tra
il pamphlet
e il saggio
di costume”, come scritto in quarta di copertina, e anche se privo di un reale intreccio, è inevitabile cogliere l'andamento narrativo, scandito dall'ordine cronologico con cui vengono
raccontati i fatti. Assistiamo
alla crescita dello
scrittore (sotto pseudonimo di Luciano Bianchi)
nel suo paese toscano,
che non viene mai nominato (viene chiamato Kansas City, nome dato da
un professore americano perché gli ricordava il suo paese
d'origine). Qua inizia la sua
formazione intellettuale, che si manifesterà nell'immediato
dopoguerra. Insieme al fratello più piccolo, diventato professore di
filosofia, si trovarono
a ricoprire un ruolo molto
dibattuto in
quegli anni, al centro dei
rapporti fra politica e
cultura e fra intellettuale e partito. Loro erano cresciuti
all'insegna dell'antifascismo, in un paese storicamente repubblicano
(sotto la mitologia mazziniana), anticlericale e che guardava con
sospetto i comunisti.
Entrambi vengono
notati dagli
assessori
al lavoro culturale, che si
susseguono nel tempo, e si
trovano al centro delle
maggiori iniziative. Propongono la fondazione di un cineclub, negli
anni del trionfo del cinema sovietico e del neorealismo italiano.
Viene poi posto il problema dell'analfabetismo, della
domanda del libro, e si trova
un'iniziale soluzione nelle attività collaterali delle biblioteche.
Altro tema attuale è il
problema del precariato degli
insegnanti di scuole medie e superiori. Vengono inoltre proposti
circoli di cultura per la
celebrazione di anniversari illustri,
e
la fondazione di una rivista. Tutte esperienze vissute da Bianciardi
direttamente, e trasmesse nel
romanzo come un dovere
civile. C'è anche un
tentativo di teorizzare
l'esposizione di un problema culturale, e
di codificare
un apposito
linguaggio verbale e gestuale.
Se gli chiedessi un'opinione generale sul mercato librario e sull'approccio degli italiani alla lettura, lui esordirebbe così: “Nell'antichità era il lettore che cercava il libro, mentre oggi il rapporto si è invertito: il libro cerca il lettore”. E se gli chiedessi, nello specifico, se è vero che in Italia persiste la cosiddetta “crisi del libro”, lui risponderebbe: “In Italia la crisi è complicata dal fatto che moltissimi scrivono e pochissimi leggono”. Quindi andrei avanti chiedendogli se c'è un vero squilibrio fra lettori e scrittori, e come si potrebbe risolvere l'analfabetismo, ed ecco che si scatena: “Ogni anno in Italia diecimila persone danno alle stampe le loro opere, e se si tiene presente che un solo libro viene stampato, su cento che arrivano manoscritti sul tavolo di un editore, ne risulterà che abbiamo in Italia, un numero altissimo di scrittori, fra editi e inediti: circa un milione, o anche di più. Forse il numero degli scrittori è pari a quello degli analfabeti, e fors'anche il problema dell'analfabetismo si potrebbe risolvere imponendo a ciascun autore di insegnare a leggere a un analfabeta, servendosi del suo libro inedito come di un sillabario”.
Luciano Bianciardi - Il lavoro culturale (Feltrinelli, 2009) |
Scritto
in una prosa agile e con una lingua semplice, quasi
non si sente differenza quando passa
dai dialoghi quotidiani alle
digressioni più tecniche.
In questa
descrizione appassionata del proprio percorso, il
fine perseguito è ciò che
la cultura può
concretamente cambiare. Se
all'inizio prevale l'esaltazione
dell'incontaminata
vita di provincia come
toccasana culturale (“La provincia, culturalmente, era la novità,
l'avventura da tentare”),
alla fine troviamo
la nostalgia per un fervore intellettuale
oramai rarefatto (“Abbastanza
male vanno le cose nella campagna riformata”).
Il libro si chiude infatti con una nota dell'autore,
scritta a posteriori
nel '64, in cui dopo essere ritornato al suo paese, scrive cosa sia
cambiato in peggio, cosa in meglio, cos'è rimasto, chi è rimasto.
A noi è rimasto il
suo libro, una lezione ancora valida.
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