A ventun'anni dal disco d'esordio, e a sette anni dall'ultimo album in studio, il Wu-Tang Clan si riunisce per il sesto e probabilmente ultimo album di gruppo, A Better Tomorrow, uscito lo scorso 2 dicembre per la Warner Bros. Il disco sarebbe dovuto uscire nel 2013 per celebrare il ventesimo anniversario dall'uscita del primo album, Enter The Wu-Tang (36 Chambers)(1993), ma una serie di disaccordi fra i membri del Clan fece posticipare il progetto.
Nonostante abbiano perso la coincidenza dell'anniversario, la nostalgia delle origini del gruppo è ben chiara, e il sapore nostalgico è evidente fin dalla copertina, con il logo classico e il font semplice del titolo come fossero uno sticker sopra un panoramico paesaggio urbano. La città rappresentata è composta dei monumenti e degli edifici più rappresentativi di diversi paesi del mondo. A sovrastare la città, una nuvola grossa a ciel sereno dalla forma del logo Wu-Tang (che rappresenta sia una sorta di volatile stilizzato, sia una W), come a ribadire la loro fama mondiale, o comunque la loro volontà di parlare a tutto il mondo – una megalomania tipicamente statunitense.
Contrabbasso,
trombe in contro-tempo, e poi il mood diventato un classico
della storia del jazz. Non ho
trovato aneddoti intriganti sulla composizione, basta ascoltarla.
I tunisini
suq per residenti
Durante la mia permanenza ho avuto modo
di conoscere qualche ragazzo tunisino. Il padrone di casa del turco,
infatti, mandava spesso suoi amici o conoscenti per svolgere lavori
di manutenzione. Le grosse ditte evidentemente non hanno mercato
perché, come ci disse un ragazzo che stava montando l'impianto del
gas al cucinino: “Tunisians are versatile” (I tunisini sono
versatili).
Oltre ad essere svegli e prodigiosi con le lingue
straniere, appunto.
Con i tunisini con cui ho comunicato non ho mai
avuto veri problemi di comprensione, conoscevano italiano e inglese
quanto bastava, e io da parte mia conoscevo il francese quanto
bastava (a volte bastava l'intesa, senza parole). Sanno comunicare, e
sanno come farsi capire. Hanno inoltre un notevole senso della
comunità, amici e conoscenti si prestano alla cooperazione di chi
necessita di aiuto, a prescindere dalla reale occupazione di ognuno,
dal loro titolo di studio, dal loro ruolo sociale.
Uno di questi amici si trattenne a fare
quattro chiacchiere con noi, e dal suo inglese capii che era più che
istruito. Infatti studiava ingegneria. Chiese cosa studiassimo noi, e
notò un certo imbarazzo nel rispondere "materie umanistiche".
Aggiungemmo che sicuramente l'ingegneria gli sarebbe servita più
della letteratura. Invece la sua risposta fu talmente acuta da
spiazzarmi. Per lui, disse, ogni ambito di studi è una scienza con
le proprie funzioni. La letteratura, continuò, ha una sua struttura, è
scomponibile, e puoi giocare con le parole e i significati.
“La lingua francese usata nella
scrittura ci “consegna” all'altro, ma ce ne difenderemo tramite
l'arabesco, la sovversione, il dedalo, il labirinto, il costante
decentramento della frase e del linguaggio, in modo tale che l'altro
si perda come nei vicoli della casba”.
Frase tratta da un saggio* in cui lo scrittore tunisino legittima
l'uso della lingua francese da parte degli scrittori maghrebini. Questa,
infatti, si rivela un'arma a doppio taglio, in quanto
strumento di riscatto dalle due culture. Maddeb sceglie di usare la lingua degli ex-colonizzatori francesi per parlare di una cultura “altra”
(creando estraneità e decentramento rispetto alla
Francia), e allo stesso tempo per parlare di tabù che la lingua
araba renderebbe meno eclatanti e circoscritti ai paesi arabi.
tetti della Medina
Medina
Av. Habib Bourguiba è la strada del
centro europeo per eccellenza, dato che qua si trovano la Cattedrale
A discapito della
canzone del maestro Franco Battiato: la mia è stata una vacanza
primaverile, e non ho alloggiato in albergo. I temporali erano tali
da farci ugualmente uscire, e non ho fumato sigarette turche. Ma, in
compenso, spero anch'io che ritorni presto l'era del cinghiale
bianco.
Check-in
Tunisi è bagnata al nostro arrivo. Le nuvole formano un'enorme cappa di umidità che
ricopre la città. Sono in compagnia di un amico italiano, studente
dell'Istituto Bourguiba delle Lingue Viventi. Lui ha già vissuto a
Tunisi per quasi sei mesi, mi ha risparmiato un sacco di fatiche. A
causa di carnagione e piumaggio bruno, dei baffetti e del suo accento ancora incerto, spesse volte gli ignari tunisini gli chiedevano se fosse turco. Da adesso in poi
mi riferirò a lui con l'epiteto di “il turco”.
Appena fuori dall'aeroporto, un
tassista chiede venti dinari per portarci in centro (1 dinaro
tunisino = 0,458 euro), tariffa che, se fossi stato da solo, avrei accettato. Il turco invece lo manda a quel paese e
passiamo al tassista successivo, con cui contrattiamo dieci dinari
(n.b.: l'ultimo giorno dal centro all'aeroporto pagherò quattro
dinari). Saliamo sul taxi e io cerco la cintura di sicurezza, che non
c'è, allora ripiego sulla maniglia sopra il finestrino: manca anche
quella. Neanche il tassista ha la cintura di sicurezza. Mi basterà
un solo giorno per scoprire che taxi e tassisti del genere non sono
l'eccezione, ma la regola.
Di Gravity è meglio non parlare della
trama, perché è talmente semplice che si rischia di dire troppo:
doveva essere un'ordinaria missione nello spazio...
Dirò invece che la regia è
spettacolare sia per gli effetti speciali (a un certo punto ti chiedi
se non abbiano davvero girato nello spazio), sia per la scelta delle
riprese. Il film lascia col fiato sospeso perché è praticamente
solo azione, pochi i personaggi con cui dialogare.
Quando mi sono chiesto se la
letteratura della beat generation avesse influenzato la narrativa
italiana, ho trovato una risposta in Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli.
Pubblicato da Feltrinelli nel 1980, il
libro è diviso in sei episodi, tutti auto-conclusivi, legati da
un'unità tematica. Ma forse sarebbe meglio parlare di molteplici
tematiche unitarie, scaturite dal fatto di avere un'età intorno ai vent'anni, il periodo in cui si matura l'autonomia e la libertà di decidere cosa fare della propria vita. I
personaggi di questi episodi sono ubriachi di libertà, nel senso che
si lasciano andare senza pensare troppo alle conseguenze. Gli episodi tracciano
un affresco autentico della gioventù degli anni '70. Gioventù
trasgressiva e disperata, che non trova stimoli per intraprendere
carriere universitarie o d'altro tipo, e preferisce vivere alla
giornata, preferisce la droga, l'acool, e il sesso sfrenato - l'eroina
e l'omosessualità sono temi ricorrenti. I giovani si
muovono nell'Emilia-Romagna, fra Modena, Bologna, Reggio Emilia, ma
anche in Europa, fra Amsterdam, Parigi e Londra. Alcuni rimangono
intrappolati nella realtà urbana a causa della droga, altri cercano
nuove esperienze all'estero, o cambiando città all'interno della
regione, attraverso viaggi lungo le autostrade.
Questo documentario (regia di Gianfranco Rosi, 2013) mostra la vita di
persone comuni che non sono affatto noiose. Comuni nel senso che
vivono lontano dai riflettori: alcune di umili condizioni, alcune di
condizioni più elevate, ma nessuna con una reale vanità o velleità di fama. Non ci sono attori, solo personalità
autentiche. Alcune sono soddisfatte della vita che conducono, alcune
meno, alcune sono rassegnate. Non si conoscono fra loro, ma tutte
sono legate da una filo rosso, il Grande Raccordo Anulare, l'autostrada tangenziale che circonda Roma.
Chi ci vive nei pressi, come gli inquilini di una palazzina comunale
che cucinano, suonano, conversano, o come il rampollo insignito di
mille onoreficenze nella sua enorme e pacchiana villa. Chi si trova
lì solo di passaggio, come un attore che deve posare come cameriere per un fotoromanzo. Chi ci lavora, come il ragazzo dell'ambulanza, o
le prostitute.
Oppure come l'anziano palmologo che caccia il
punteruolo rosso con meticolosità e attrezzature sofisticate. Il
punteruolo rosso sembra la sua balena bianca, e lui Achab, come se in
quella caccia si trovasse la salvezza dell'intera umanità.
Il Grande Raccordo Anulare raccoglie
queste ed altre vite ai margini, sociali e geografici, che non sono molto
Foto simbolica di una libreria
(la mia, una parte)
Il contenuto del libro si staccava da me, ero libero di pensarci o non pensarci; subito ricuperavo la vista ed ero assai stupito di trovare intorno a me un'oscurità dolce e riposante per i miei occhi.
(Marcel Proust - La strada di Swann)
Qua di seguito è esposta la lista dei
libri che ho letto da gennaio a dicembre 2013.
L'idea l'ho copiata da Aaron Swartz, il programmatore-attivista prodigio che si è
suicidato il gennaio scorso, dopo essere stato arrestato per aver
scaricato illegalmente un database di articoli accademici del MIT.
Nel suo sito personale, Swartz pubblicava ogni anno la sua lista di letture, lasciando dei commenti per quasi ogni titolo.
Oltre che per egocentrismo ed
esibizionismo, pubblicare la propria lista di letture annuali può
essere utile perché produce dati su “un lettore tipo”.
In realtà il mio obbiettivo è che qualcuno, leggendola, possa trovare spunti di lettura
interessanti.
Passando
ai numeri, in totale ho letto 37 titoli, che paragonati a quelli di
Swartz del 2010
sono un numero imbarazzante:
ne ha letto 122.
Ecco
gli altri dati:
Media lettura: 3 libri al mese circa.
Autori italiani: 9 su 34 ( di cui sardi: 3 su 34)
Autori stranieri: 25 su 34 (di cui americani: 16 su 34)
Libri in lingua originale: 3 su 37 (inglese)
Romanzi: 16 su 37
Racconti (raccolte): 12 su 37
Saggistica: 5 su 37
Altro: Rossari (raccolta “disomogenea” di racconti, aforismi e
bozzetti), Latronico (romanzo-pamhlet), Young (autobiografia), Fante
(epistolario), Tolkien (fumetto).
Alcuni di questi libri sono recensiti su questo blog.
Zadie Smith –
Perché scrivere? (e-book, minimum fax, 2007)
Si potrebbe riassumere Riso nero
di Sherwood Anderson come la manifestazione dell'insofferenza verso i
vincoli dettati dalle convenzioni sociali. Il sottotitolo all'edizione italiana del '76 (traduzione di Cesare Pavese) recita:
La fuga come sistema di sopravvivenza in America.
E questo è abbastanza vero, se si considera la parola “fuga” in
un senso molto ampio. Fuga da una società opprimente, fuga dalla
quotidianità fatta di un lavoro convenzionale, di frequentazioni
convenzionali, di un amore convenzionale.